VII

LA CANZONE «AD ANGELO MAI» E GLI «IDILLI» DEL ’20-21

Se L’infinito è una poesia altissima e tale da far meglio capire la natura complessa ed energica della stessa poesia idillica leopardiana quando essa corrisponde davvero alla definizione di «avventure storiche del [proprio] animo», il Leopardi dové però sentirla in qualche modo pure insufficiente a esprimere tutte le forze e i motivi complessi che si agitavano nel suo animo e nella sua mente e a corrispondere a quel bisogno di intervento pubblico, a quelle prospettive civili e patriottiche che avevano animato le canzoni del 1818.

Perciò nel gennaio del 1820 un nuovo impeto grandioso di poesia civile, un genuino bisogno di intervenire nella situazione storica attuale e insieme un profondo bisogno di sistemare in un componimento monumentale e vasto la ardente massa di sentimenti, di volizioni, di pensieri che intanto cercava di definire speculativamente nello Zibaldone, condussero il Leopardi a dar vita a una nuova opera poetica, la canzone Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica[1].

La nuova canzone non ha la perfezione assoluta dell’Infinito (e forse per ritrovare una poesia cosí perfetta bisognerà giungere alla canzone Alla sua Donna del 1823), e non manca di parti faticose, di squilibri, di inadempienze nella tensione a un linguaggio alto, lirico-eloquente e insieme fermentante di intensa sensibilità. E può notarsi un certo contrasto tra le forme monumentali e regolari delle strofe e l’ardente irrequietezza dei molteplici motivi che dentro vi si agitano.

Contrasto che è un elemento di fascino di questa grandiosa e irrequieta, ricchissima epitome di motivi leopardiani in movimento che finiscono per superare l’occasione che dette origine alla canzone e la stessa fondamentale prospettiva storico-patriottica, che è comunque la solida base di tutto il suo complesso e irrequieto sviluppo interno.

Da una parte il Leopardi riprendeva dalla canzone All’Italia l’elemento volitivo, la volontà di contribuire con la sua poesia a un desiderato risorgimento degli italiani, proponendo non tanto piú l’atteggiamento di immediato e piú ingenuo intervento personale eroico e combattivo («L’armi, qua l’armi»), quanto l’atteggiamento di un uomo di cultura e di un poeta che propone una ripresa di attività, attraverso un risveglio piú generale di attenzione alla voce di una antica gloriosa civiltà e a tutta una concezione della vita illuminata dal contatto con la natura e con le generose e poetiche illusioni.

D’altra parte egli riprendeva la prospettiva piú intensa di delusione storica, di sdegno sul presente corrotto, sulla inerzia e sul torpore degli italiani, quale si era piú fortemente pronunciato nella canzone Sopra il monumento di Dante, ricollegandola piú profondamente al grande tema del suo pensiero circa il contrasto fra le antiche età vicine alla natura e piene di illusioni e l’epoca moderna dominata dall’arido vero e dalla gretta e fredda ragione.

Eliminati i richiami alla dominazione francese e alla campagna di Russia, tanto piú chiaro è l’elemento di attualità e di delusione storica della canzone che mira direttamente alla situazione italiana (e non solo italiana) dominata dalla triste pace della Restaurazione e della Santa Alleanza a cui chiaramente alludono alcune espressioni (ad esempio nell’ultima strofa: «Or di riposo / paghi viviamo, e scorti / da mediocrità», vv. 171-173).

E che il Leopardi pensasse anzitutto, nella genesi della canzone, a una prospettiva politico-civile, a una volontà di intervento e di diagnosi estrema della situazione italiana presente, lo dimostra quanto egli scrisse in una lettera del 28 aprile 1820 all’amico Pietro Brighenti, in cui spiegava come il padre Monaldo, che gli aveva proibito la pubblicazione delle canzoni funerarie dell’inizio del ’19 soprattutto colpito dal titolo di quella Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, avesse invece facilmente concesso il permesso per la nuova canzone:

Il titolo della seconda inedita si è trovato fortunatamente innocentissimo. Si tratta di un Monsignore. Ma mio padre non s’immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar di quello che piú gl’importa, e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una Canzone piena di orribile fanatismo.[2]

Dove l’«orribile fanatismo» si riferiva anzitutto certamente al fanatismo politico e patriottico che Monaldo non immaginava entro una canzone al Monsignor Angelo Mai, bibliotecario della Vaticana e puro erudito e filologo.

Mentre nella dedica della canzone al conte vicentino Leonardo Trissino, giovane amico del Giordani (e che rimane imbarazzato della dedica di una canzone che la censura austriaca proibí, molto piú avveduta, in questo caso, di Monaldo), il Leopardi concludeva con queste significative parole:

[...] diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l’ingegno a dilettare colle parole, giacché la fortuna ci toglie il giovare co’ fatti com’era usanza di qualunque de’ nostri maggiori volse l’animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch’io vi mando. Ma ricordatevi ch’ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che ’l pianger giova. Io non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna.[3]

Dove si sottolineano il tema della canzone che è, alfierianamente, surrogato di azione, il suo carattere disperato come voce di «disgraziati» (gli italiani decaduti e schiavi), la sua tonalità funebre dovuta non tanto a una inclinazione personale del poeta, ma ai tempi avversi e ostili.

La canzone nasce cosí anzitutto da una piú profonda forma di delusione storica che le dà i toni piú cupi e dolenti (il «vestire a lutto») e da una volontà di riscossa, collegata, non senza qualche sproporzione fra occasione e svolgimento, a quella riscoperta dei libri Della Repubblica di Cicerone che il Leopardi interpreta come un segno provvidenziale che gli italiani dovrebbero accogliere immediatamente per scuotersi dal loro torpore e ascoltare il suggerimento della voce risorgente dei loro padri antichi, di quella antica gloriosa civiltà fervida di attività e di fantasia.

Donde deriva quell’impasto di entusiasmo e di dolore, di funebre e di ardente che poi, sotto la prospettiva piú immediatamente attuale e nazionale, piú profondamente si ricollega alla stessa situazione personale del poeta (nel suo contrasto fra disperato pessimismo e tensione alla vita) e al grande tema di contrasto fra natura e ragione, fra illusioni e arido vero che scopre il nulla delle cose, fra epoche passate, in cui la natura parlava senza svelarsi, e le illusioni grandeggiavano, e l’epoca contemporanea dominata dalla fredda ragione, dall’egoismo, dall’inerzia, dall’utilitarismo, dal conformismo e dalla mediocrità.

Per quello che riguarda l’esperienza personale del poeta e la sua tragica situazione di malato, di prigioniero nel carcere della casa paterna, di uomo che ha conosciuto, per sofferenza propria, il sentimento del nulla (ciò che nella terza strofa della canzone erompe violentemente: «Io son distrutto / né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro / m’è l’avvenire, e tutto quanto io scemo / è tal che sogno e fola / fa parer la speranza», vv. 34-38) si potrebbero citare numerose lettere al Giordani di questi mesi, come la lettera del 19 novembre 1819:

Sono cosí stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere alla tua del primo. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho piú lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo piú divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene piú a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo; e sono cosí spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione.[4]

Per quel che riguarda poi il grande tema del contrasto fra natura e ragione, fra illusioni e arido vero (tema che riprendeva grandi preludi rousseauiani, alfieriani e foscoliani dell’Ortis), occorrerebbe rifarsi a tutto il denso sviluppo di pensieri dello Zibaldone, in cui, da una parte si assiste all’affermazione del nulla e della vanità di tutte le cose, del sentimento orribile della noia, cui conduce la fredda ragione, e dall’altra all’esaltazione della natura e delle illusioni. Queste sono vane se considerate da un punto di vista razionalistico, ma esse sono, secondo sentimento e secondo natura, «Il piú solido piacere di questa vita», sono «ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la piú misera e barbara cosa ec.» [51][5].

Al fondo di tutto è una grande crisi pessimistica che dalla storia italiana presente investe ogni possibilità di giustificazione razionale di valori, ma insieme nella canzone si alza l’ardente vagheggiamento delle illusioni che sono al tempo stesso il «caro immaginar», i sogni poetici e favolosi, e l’entusiasmo, l’eroismo, l’attività generosa che gli uomini vissero quando vivevano secondo natura e che il Leopardi disperatamente vorrebbe far risorgere nel presente quasi in un’assurda speranza, di cui insieme avverte la difficoltà e addirittura l’impossibilità.

E tutto ciò si traduce nel movimento solenne, inquieto, appassionato e funereo della canzone, nello stesso linguaggio fattosi piú “ardito”, perentorio, sentenzioso, energico (rispetto alle forme delle canzoni patriottiche di cui pur riprende l’alta eloquenza classicheggiante, non senza qualche caduta in forme piú fiaccamente oratorie) e insieme piú intimamente arricchito di quella suggestività e di moti piú teneri e affettuosi che derivavano dal profondo scavo ed esercizio di sensibilità degli idilli e che qui soprattutto si pronunciano intorno ai motivi di vagheggiamento delle illusioni.

Donde, come dicevo, l’incontro fra la volontà di una costruzione monumentale e regolare e l’irrequieta ricchezza dei motivi interni che nascono spesso l’uno dall’altro con uno sgorgo tumultuoso ed estremamente alacre.

La canzone può dividersi in due parti fondamentali: la prima formata dalle prime quattro strofe, piú direttamente legata all’occasione del componimento e al suo alto significato, e sostanzialmente piú faticosa, e la seconda sino alla fine, piú densa di poesia e di movimento interno.

La prima strofa:

Italo ardito, a che giammai non posi

di svegliar dalle tombe

i nostri padri? ed a parlar gli meni

a questo secol morto, al quale incombe

tanta nebbia di tedio? E come or vieni

sí forte a’ nostri orecchi e sí frequente,

voce antica de’ nostri,

muta sí lunga etade? e perché tanti

risorgimenti? In un balen feconde

venner le carte; alla stagion presente

i polverosi chiostri

serbaro occulti i generosi e santi

detti degli avi. E che valor t’infonde,

italo egregio, il fato? O con l’umano

valor forse contrasta il fato invano? (vv. 1-15)

vive soprattutto dall’incalzare delle numerosissime interrogazioni che intendono esprimere lo stupore, la meraviglia commossa del poeta di fronte alle scoperte del Mai, interpretate (quasi con una certa consonanza con motivi dei Sepolcri foscoliani) come il segno provvidenziale o misterioso di questo ripresentarsi agli italiani inerti della voce degli antichi padri che li stimolano a nuova vita, proprio nel periodo della loro maggiore decadenza. Il tessuto generale è piú chiaramente eloquente e quasi sovrabbondante nelle sue replicate interrogazioni, ma pur rende sostanzialmente il movimento stupito, commosso, quasi incredulo del poeta, un suo moto di speranza. E insieme il tutto è pur contrassegnato e rialzato sia da espressioni cupe e desolate di singolare efficacia (il «secol morto, al quale incombe / tanta nebbia di tedio»); sia dall’intensità quasi religiosa delle designazioni degli antichi scritti tornati alla luce («i generosi e santi / detti degli avi»), che riprende quel tipo di linguaggio religioso adibito a elementi politici e patriottici già cosí usato dal Foscolo nell’Ortis; sia da certe vibrazioni piú profonde in quelle parole indicanti aspetti e cose remote («Voce antica de’ nostri, / muta sí lunga etade») secondo quel gusto leopardiano della particolare poeticità di tutto ciò che indica lontananza nello spazio e nel tempo.

Mentre la doppia domanda della conclusione indica un procedimento tipico di questa canzone (una clausola piú sentenziosa, rilevata, severa) che qui però ha qualcosa di piú concettoso, contorto e sforzato, pur appartenendo a quella ricerca di forme “ardite”, inconsuete e grandiose, legata alla volontà di una costruzione monumentale, solenne, altamente lirica.

Come assai contorta e faticosa risulta piú interamente la seconda strofa:

Certo senza de’ numi alto consiglio

non è ch’ove piú lento

e grave è il nostro disperato obblio,

a percoter ne rieda ogni momento

novo grido de’ padri. Ancora è pio

dunque all’italia il cielo; anco si cura

di noi qualche immortale:

ch’essendo questa o nessun’altra poi

l’ora da ripor mano alla virtude

rugginosa dell’itala natura,

veggiam che tanto e tale

è il clamor de’ sepolti, e che gli eroi

dimenticati il suol quasi dischiude,

a ricercar s’a questa età sí tarda

anco ti giovi, o patria, esser codarda. (vv. 16-30)

concepita in forme piú chiaramente oratorie, meno riassorbite nel linguaggio ardito della canzone e diluenti il nucleo essenziale costituito dalla ripresa, ora assicurata, del motivo di una provvidenzialità delle scoperte degli antichi scritti e dalla piú forte affermazione della eccezionalità e irripetibilità e urgenza di questo singolare momento, che sottolinea la disperata volontà leopardiana di una riscossa italiana immediata.

Il movimento di speranza, collegato a quello del carattere provvidenziale delle riscoperte degli antichi scritti, si comunica, con piú forza iniziale, all’avvio della terza strofa, che si rivolge direttamente ai «gloriosi» uomini-scrittori, la cui voce torna a farsi udire agli italiani. Ma subito vi si inserisce, con brusca impennata, l’affermazione violenta della propria disperazione personale e a essa si ricollega una sequenza, rotta e desolata, di indicazioni della assoluta decadenza italiana presente, con note successive e sempre piú perentorie, che consolidano fortemente la profonda delusione storica del poeta:

Di noi serbate, o gloriosi, ancora

qualche speranza? in tutto

non siam periti? A voi forse il futuro

conoscer non si toglie. Io son distrutto

né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro

m’è l’avvenire, e tutto quanto io scemo

è tal che sogno e fola

fa parer la speranza. Anime prodi,

ai tetti vostri inonorata, immonda

plebe successe; al vostro sangue è scherno

e d’opra e di parola

ogni valor; di vostre eterne lodi

né rossor piú né invidia; ozio circonda

i monumenti vostri; e di viltade

siam fatti esempio alla futura etade. (vv. 31-45)

Sicché appare quasi assurdo e contraddittorio il nuovo movimento (nella strofa quarta) che affida ogni speranza positiva all’opera dell’illustre filologo, Angelo Mai, il quale sembra rinnovare, con le sue fortunate e quasi miracolose scoperte, l’umanesimo, quando, dopo l’«Obblivione antica» dell’epoca medievale (che per il Leopardi era, illuministicamente, epoca totalmente barbara e oscura), le risposte degli scritti dei classici greci e latini avevano rianimato la civiltà italiana, ancora capace di azioni eroiche e di poesia, già avviata dagli esempi grandi di Dante e Petrarca. All’esaltazione dell’età umanistica si congiunge il grande tema della civiltà classica in cui «natura parlò senza svelarsi», e cioè in forma diretta e immaginosa, senza rivelare la sua realtà che la ragione e la scienza hanno privato appunto delle sue illusioni, dei suoi margini poetici.

Sicché la strofa, superando il motivo piú occasionale del riferimento al Mai, e pur con forme piú apertamente oratorie, vale soprattutto come preparazione dei grandi temi poetici che piú solidamente si svolgono nella seconda parte della canzone:

Bennato ingegno, or quando altrui non cale

de’ nostri alti parenti,

a te ne caglia, a te cui fato aspira

benigno sí che per tua man presenti

paion que’ giorni allor che dalla dira

obblivione antica ergean la chioma,

con gli studi sepolti,

i vetusti divini, a cui natura

parlò senza svelarsi, onde i riposi

magnanimi allegràr d’Atene e Roma.

Oh tempi, oh tempi avvolti

in sonno eterno! Allora anco immatura

la ruina d’italia, anco sdegnosi

eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo

piú faville rapia da questo suolo. (vv. 46-60)

Tutta la seconda parte si costruisce secondo uno schema di rievocazione di grandi personalità italiane del passato; in essa il Leopardi poté anche utilizzare lo schema simile usato nell’elogio dei grandi poeti italiani (a esortazione del presente) pronunciato dall’improvvisatrice Corinne sul Campidoglio, nel romanzo della De Staël, Corinne ou l’Italie, che è fra le letture piú assidue del Leopardi di questo periodo.

Ma, piú in profondo, tutta la seconda parte segue una doppia linea: quella che segna un peggioramento progressivo della civiltà italiana (e dietro di essa di tutta la civiltà moderna) e quella piú continuamente a contrasto fra i vari momenti rievocati del passato e il disvalore del presente («allora» e «ora» son parole significative che ritornano piú volte nella canzone). E nell’intreccio di questa doppia linea si espande tutta l’enorme ricchezza e alacrità di poesia che il Leopardi ricava dall’appassionato vagheggiamento delle illusioni e dal disperato sentimento della decadenza presente, in cui vibra tutta la sua personale esperienza di infelicità, di tedio, e la sua crescente intuizione del nulla e della vanità di tutte le cose, una volta che esse siano state rivelate nella loro nuda realtà dal potere negativo della fredda ragione.

E ben si avverte questo crescere della poesia nella strofa quinta:

Eran calde le tue ceneri sante,

non domito nemico

della fortuna, al cui sdegno e dolore

fu piú l’averno che la terra amico.

L’averno: e qual non è parte migliore

di questa nostra? E le tue dolci corde

susurravano ancora

dal tocco di tua destra, o sfortunato

amante. Ahi dal dolor comincia e nasce

l’italo canto. E pur men grava e morde

il mal che n’addolora

del tedio che n’affoga. Oh te beato,

a cui fu vita il pianto! A noi le fasce

cinse il fastidio; a noi presso la culla

immoto siede, e su la tomba, il nulla. (vv. 61-75)

La strofa si presenta folta di movimenti e di toni, fra l’esaltazione eroica e sdegnosa di Dante «Non domito nemico / della fortuna»[6] e l’abbandono piú tenero ed elegiaco della rievocazione del Petrarca, «sfortunato amante». Designazione da cui rampolla l’affermazione delle origini della poesia italiana legata al dolore e dalla quale scaturisce impetuosamente il motivo piú intenso, e personalmente sofferto, della sproporzione fra il dolore, come qualcosa di pur vitale, e la noia che annulla ogni forma di vita e di sensibilità. E tutto culmina nella grandiosa clausola della strofa, in cui condizione personale, condizione della civiltà moderna “snaturata” e priva di illusioni, condizione storica degli italiani inerti e oziosi, si fondono potentemente in una espressione severa e monumentale, ardita per la costruzione e per il rilievo che dà alla parola essenziale, «il nulla», alla fine di tutto un riepilogo energico e conciso di tutta una vita dominata da quel grandioso e immoto termine estremo di vanità e di negatività.

A questa sublime immagine di supremo pessimismo si contrappone il radioso, impetuoso movimento della strofa sesta, che rievoca la esemplare figura di Colombo (cosí cara al Leopardi, che la riprenderà in una delle piú poetiche delle Operette morali), concreto simbolo di un’età felice, ricca di coraggio, di avventurosità intrepida, di vigore vitale e di entusiasmo, e insieme poi, nello svariare del movimento in un nuovo impeto dolente e negativo, pretesto dell’affermazione che da questa scoperta, come da tutte le scoperte della scienza e della ragione, il mondo e la realtà perdono i loro margini misteriosi e immaginosi, rivelano la loro piccolezza e miseria:

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,

ligure ardita prole,

quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti

cui strider l’onde all’attuffar del sole

parve udir su la sera, agl’infiniti

flutti commesso, ritrovasti il raggio

del Sol caduto, e il giorno

che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;

e rotto di natura ogni contrasto,

ignota immensa terra al tuo viaggio

fu gloria, e del ritorno

ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto

l’etra sonante e l’alma terra e il mare

al fanciullin, che non al saggio, appare. (vv. 76-90)

E se il primo movimento della strofa è tanto piú alacre e denso di poesia (quel viaggio eroico e avventuroso di Colombo che esalta l’ardente aspirazione leopardiana a una vita piena e rischiosa e permette insieme lo sviluppo di un paesaggio poetico fra cielo e mare, ricco di prospettive infinite, fino a quella «Ignota immensa terra» che coagula poeticamente appunto questo sentimento del fascino dell’ignoto e dell’immenso), anche il secondo, in se stesso poeticamente meno espanso e in qualche modo piú ragionativo (e che pur ben mostra l’inquieto, alacre sgorgo dei motivi entro una stessa strofa), vale ad aprire l’abbandono piú insistito e dolce della strofa settima, che vagheggia nostalgicamente il fascino dei sogni leggiadri degli antichi e dei fanciulli, delle antiche credenze di cui, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, l’adolescente aveva soprattutto colpito l’erroneità di pregiudizi irrazionali, e di cui ora piú sicuramente sviluppa quel fascino poetico solo parzialmente intravvisto nel Saggio e qui sottolineato con una voce poetica particolarmente profonda nelle parole designanti lontananza, inconoscibilità razionale, segretezza favolosa («ignoto» ricetto, «ignoti» abitatori, «rimoto» letto, «occulto» sonno).

Mentre, con uno schema simile a quello della strofe di Colombo, a quel vagheggiamento poetico di un mondo di illusioni, di miti, di sogni, si contrappone, con un movimento piú fratto, l’asserzione di quella fatale perdita, nel mondo moderno, dominato dalla ragione, che accresce solo il nulla (la grande parola estrema che domina tutta la direzione piú pessimistica della canzone) e vieta il «caro immaginar» e il suo «stupendo poter»:

Nostri sogni leggiadri ove son giti

dell’ignoto ricetto

d’ignoti abitatori, o del diurno

degli astri albergo, e del rimoto letto

della giovane Aurora, e del notturno

occulto sonno del maggior pianeta?

Ecco svaniro a un punto,

e figurato è il mondo in breve carta;

ecco tutto è simile, e discoprendo,

solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta

il vero appena è giunto,

caro immaginar; da te s’apparta

nostra mente in eterno; allo stupendo

poter tuo primo ne sottraggon gli anni;

e il conforto perí de’ nostri affanni. (vv. 91-105)

Di quei «sogni leggiadri», di quel «caro immaginar», nell’ancor fervida età rinascimentale, era stato rianimatore l’Ariosto (quell’Ariosto che il Leopardi amava per il “tuono di gioia” che dominava la sua poesia)[7] e di quel grande poeta, creatore di nuove favole poetiche, egli esalta qui, con un nuovo movimento appassionato e nostalgico, i toni e gli argomenti stessi, favolosi, avventurosi, amorosi ed eroici, che avevano alimentato la vitalità di un’epoca tanto meno triste di quella presente. E si noti come per il Leopardi la poesia fosse una potente integrazione dell’attività, dell’eroismo, un incentivo delle generose illusioni, entro una visione ardentemente vagheggiata della vita in cui attività e fantasia si integrano (Colombo e Ariosto) e ben lontana da una pura contemplazione “idillica” da “ultimo pastorello di Arcadia”.

Ché anzi, in alcuni pensieri piú tardi dello Zibaldone del ’23, egli giungerà ad affermare (si veda il lungo pensiero sulla poesia omerica) che la poesia «cagiona nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma» [3139][8].

In un senso simile, se non uguale, l’esaltazione dell’Ariosto, creatore di nuove favole, è sentita come un potente stimolo alla vitalità e all’immaginosità del suo tempo, di fronte al quale quello presente è squallido, antieroico e antipoetico e le cose, la realtà sono spogliate del «verde» del loro rigoglio di immagini poetiche e di generose illusioni:

Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo

sole splendeati in vista,

cantor vago dell’arme e degli amori,

che in età della nostra assai men trista

empièr la vita di felici errori:

nova speme d’Italia. O torri, o celle,

o donne, o cavalieri,

o giardini, o palagi! a voi pensando,

in mille vane amenità si perde

la mente mia. Di vanità, di belle

fole e strani pensieri

si componea l’umana vita: in bando

li cacciammo: or che resta? or poi che il verde

è spogliato alle cose? Il certo e solo

veder che tutto è vano altro che il duolo. (vv. 106-120)

La clausola della strofa dedicata all’Ariosto («Il certo e solo / veder che tutto è vano altro che il duolo») dà l’avvio alle due strofe dedicate al Tasso e dominate ormai dal motivo della decadenza, già in atto con la fine dell’epoca rinascimentale e da quello dell’ulteriore peggioramento verificatosi nell’epoca presente.

Il Tasso (che il Leopardi amava non solo come grande uomo e “filosofo” che aveva sofferto personalmente e intuito nelle sue opere il nulla e la vanità della condizione umana e che quindi egli considerava come anticipatore della propria intuizione pessimistica)[9] viene rievocato in due strofe che svolgono ampiamente, e con toni fortemente romantici e disperatamente affettuosi (dato il legame, la similarità che il Leopardi avverte con quel grande poeta), i due motivi sopra accennati e che ormai prevalgono nettamente sul vagheggiamento delle illusioni e delle età felici del passato. La nona:

O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa

tua mente allora, il pianto

a te, non altro, preparava il cielo.

Oh misero Torquato! il dolce canto

non valse a consolarti o a sciorre il gelo

onde l’alma t’avean, ch’era sí calda,

cinta l’odio e l’immondo

livor privato e de’ tiranni.

Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno,

t’abbandonava. Ombra reale e salda

ti parve il nulla e il mondo

inabitata piaggia. Al tardo onore

non sorser gli occhi tuoi; mercé, non danno,

l’ora estrema ti fu. Morte domanda

chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda. (vv. 121-135)

svolge piú direttamente, in modi spesso troppo ansiosi, rotti, tumultuosi e sentimentali (e con un finale piuttosto contorto), il motivo della infelicità tassesca riassunta nei moduli piú romantici della vicenda del poeta (persecuzione di privati e di principi, delusione dell’amore per Eleonora d’Este), ma centra il tutto nella grandiosa intuizione, attribuita al Tasso, della vanità della vita e della realtà del nulla: intuizione che si riconnette alle piú alte espressioni leopardiane di questa suprema dimensione della negatività e del pessimismo.

La decima:

Torna torna fra noi, sorgi dal muto

e sconsolato avello,

se d’angoscia sei vago, o miserando

esemplo di sciagura. Assai da quello

che ti parve sí mesto e sí nefando

è peggiorato il viver nostro. O caro,

chi ti compiangeria,

se, fuor che di se stesso, altri non cura?

Chi stolto non direbbe il tuo mortale

affanno anche oggidí, se il grande e il raro

ha nome di follia;

né livor piú, ma ben di lui piú dura

la noncuranza avviene ai sommi? o quale,

se piú de’ carmi, il computar s’ascolta,

ti appresterebbe il lauro un’altra volta? (vv. 136-150)

piú direttamente riconduce all’essenziale tema della delusione storica del presente, in cui «È peggiorato il viver nostro». Sicché, con una serie di interrogazioni angosciose, desolate e sdegnate, il Leopardi ripropone, in contrasto con il tempo già «sí mesto e sí nefando» del Tasso, le conseguenze della decadenza presente: l’egoismo (cosí diverso dall’«amor proprio» che era sorgente di eroismo e di dignità nelle età antiche), l’irrisione di un’epoca mediocre, ingenerosa e impoetica di fronte a ogni cosa rara e grande, il disinteresse per i grandi ingegni, l’utilitarismo e il freddo calcolo preferito alla poesia.

Oramai nella canzone prevalgono sempre piú decisamente i toni di sdegno e di delusione storica ed essi dominano le ultime due strofe dedicate all’Alfieri e alla breve conclusione della canzone.

Sappiamo ormai ex abundantia quanto importante fosse l’Alfieri per il Leopardi: non solo poeta, ma piú ancora maestro di vita e di una concezione eroica, libera e attiva della stessa letteratura.

E possiamo ben capire non solo come in questa rievocazione dell’Alfieri si addensino chiare riprese di moduli ed espressioni alfieriane (alcune, prese di peso, come quel «Memorando ardimento» che deriva dal libro terzo del trattato Del principe e delle lettere), ma anche come la canzone dovesse concludersi con questo estremo esempio dell’ultimo grande italiano in contrasto con la sua «codarda etate» e con la sua «Stanca ed arida terra» e con l’esempio della sua poesia come guerra contro i tiranni, cosí come voleva essere la stessa poesia leopardiana, pur avvertendo che si trattava pur sempre di una «misera guerra», surrogato di un’azione diretta e decisiva. Esempio altissimo e non seguito da nessuno degli italiani inerti e vilmente silenziosi.

Tutto ciò è svolto, con modi particolarmente energici, attivi, agonistici, estremistici, nella strofa undicesima:

Da te fino a quest’ora uom non è sorto,

o sventurato ingegno,

pari all’italo nome, altro ch’un solo,

solo di sua codarda etate indegno

allobrogo feroce, a cui dal polo

maschia virtú, non già da questa mia

stanca ed arida terra,

venne nel petto; onde privato, inerme,

(memorando ardimento) in su la scena

mosse guerra a’ tiranni: almen si dia

questa misera guerra

e questo vano campo all’ire inferme

del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena

scese, e nullo il seguí, che l’ozio e il brutto

silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto. (vv. 151-165)

Mentre nell’ultima strofa:

Disdegnando e fremendo, immacolata

trasse la vita intera,

e morte lo scampò dal veder peggio.

Vittorio mio, questa per te non era

età né suolo. Altri anni ed altro seggio

conviene agli alti ingegni. Or di riposo

paghi viviamo, e scorti

da mediocrità: sceso il sapiente

e salita è la turba a un sol confine,

che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,

segui; risveglia i morti,

poi che dormono i vivi; arma le spente

lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine

questo secol di fango o vita agogni

e sorga ad atti illustri, o si vergogni. (vv. 166-180)

dalla ribadita ed esaltata esemplarità e santità dell’Alfieri si passa rapidamente a quel «peggio» da cui la morte scampò l’Alfieri. Il «peggio» è appunto l’epoca della Restaurazione e della Santa Alleanza, l’epoca di un’inerzia e di un riposo vile, di un conformismo e di un livellamento che esclude il sorgere di personalità eroiche ed eccezionali come era stata quella alfieriana (e dietro la definizione politica dell’epoca vibra ovviamente il richiamo a una decadenza non solo nazionale, ma legata alla scomparsa delle illusioni, all’allontanamento degli uomini dalla natura).

L’affermazione di tale situazione è cosí risoluta, profonda e motivata (ché la canzone è sintesi, come abbiamo detto, anche di motivi meditati e filosofici), che il ritorno frettoloso al Mai, l’invito a lui al proseguimento della sua impresa filologica, rialzata eroicamente dall’alto significato che le è attribuito, appaiono, tutto sommato, piuttosto deboli di fronte alla denuncia, alla protesta, all’affermazione di profondo pessimismo della canzone. E lo stesso dilemma finale proposto agli italiani e al «secol di fango» a ridestarsi a nuova vita o a vergognarsi, risuona piuttosto debole e sproporzionato alla grandiosità della canzone.

Dopo la grandiosa espressione della canzone Ad Angelo Mai, sintesi complessa di tanti altri motivi leopardiani, il poeta si applicò sempre piú assiduamente allo sviluppo, nello Zibaldone, del suo pensiero, imperniato, in quell’epoca, soprattutto intorno al suo “sistema” della natura e delle illusioni, abbandonando l’impegno di intervento pubblico attraverso la poesia; impegno ripreso solo tra la fine del ’21 e l’inizio del ’22, con un nuovo ciclo di canzoni, aperto da Nelle nozze della sorella Paolina e da A un vincitore nel pallone.

Ma durante questo lungo intervallo, occupato, ripeto, dall’infittirsi delle note dello Zibaldone, i cui esiti piú importanti riconfluiranno poi nelle canzoni del ’21-22, egli ritornerà pure all’espressione poetica con tre componimenti che intitolerà ancora «idilli» (La sera del dí di festa, Il sogno, La vita solitaria) e che, come gli idilli del ’19, verranno pubblicati solo piú tardi, considerati anch’essi, in un primo tempo, come documenti piú privati. Essi si ricollegano tanto piú direttamente alla sua situazione di infelicità e a quello scavo nella propria sensibilità che trovava appoggio, sulla via degli idilli precedenti, in documenti come i Ricordi d’infanzia e di adolescenza o in alcune note e osservazioni piú sensibili e private dello stesso Zibaldone.

In complesso, la nuova direzione è contraddistinta da un intreccio di idillio e di elegia che trova la sua forza piú densa all’inizio del breve ciclo, nella Sera del dí di festa, mentre verrà diluendosi ed esaurendosi nei due successivi componimenti (nel Sogno con il prevalere dell’elemento elegiaco in una direzione amorosa e sentimentale, piú morbida e melodrammatica, nella Vita solitaria, con il prevalere di un idillismo piú analitico e dispersivo e con una piú forte letterarietà).

La sera del dí di festa[10] (fra l’estate e l’autunno del ’20) è nettamente superiore agli altri due idilli ed è sostanzialmente poesia di alto valore, che tanto meglio può comprendersi se si consideri correttamente non tanto come un idillio turbato e alterato da note elegiache e drammatiche forzatamente introdottevi, ma proprio nella sua genesi di intreccio idillico-elegiaco radicale e originale.

In essa ritornano, con una carica genuina e schietta, le note piú intense della coscienza leopardiana della propria personale infelicità, quali si possono cogliere in numerose lettere di questo periodo.

Si ricordi, ad esempio, la lettera del 21 aprile 1820 al Brighenti: «È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna» e di pensare «d’esser nato colla sacra e indelebile maledizione del destino»[11]. Accertamento della propria particolare destinazione all’infelicità, che poi viene approfondito, con chiare consonanze con passi della Sera del dí di festa, nella lettera del 24 aprile a Pietro Giordani:

Se noi fossimo antichi, tu avresti spavento di me, vedendomi cosí perpetuamente maledetto dalla fortuna, e mi crederesti il piú scellerato uomo del mondo. Io mi getto e mi ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere. La mia disgrazia è assicurata per sempre: quanto mi resterà da portarla? quanto? Poco manca ch’io non bestemmi il cielo e la natura che par che m’abbiano messo in questa vita a bella posta perch’io soffrissi.[12]

Mentre, sulla via profonda del motivo struggente del canto e della sua allusività al senso della caducità di tutte le cose, si ricordi la nota dello Zibaldone:

Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani cosí caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco. [50-51][13]

E a guidare ancor piú direttamente al centro motore della poesia, al suo intreccio idillico-elegiaco, servirà ancora la citazione di un’altra lettera al Giordani, del 6 marzo 1820:

[...] poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo.[14]

Qui la tensione verso uno spettacolo naturale, dolce e puro, la voce della natura che torna a parlargli, e insieme l’orrore per il suo stato infelice, la sua condizione di escluso dalla felicità che la natura concede ad altri, si dispongono già verso l’intreccio idillico-elegiaco che è alla base della poesia. Intreccio genetico tanto piú chiaro se si pensi che in una primissima stesura del primo verso della poesia il Leopardi aveva scritto: «Oimè, chiara è la notte e senza vento»[15].

Cosí, in maniera sin troppo aperta ed esplicita, egli mostrava come lo stesso puro, immacolato paesaggio contemplato all’inizio della poesia non nascesse come un semplice moto di contemplazione serena e soddisfatta, ma nascesse intimamente legato con una prospettiva elegiaca, con un moto di infelicità personale. Sicché anche quando il poeta, con una correzione di gusto molto fine, abolí il lamento, l’«Oimè» iniziale, e scrisse «Dolce e chiara è la notte e senza vento», dando una compattezza tanto piú sicura a quella visione di bellezza e serenità notturna e lunare, il senso di quel lamento, che apertamente indicava il contrasto fra la bellezza della natura e il proprio stato di escluso e di infelice, venne riassorbito nel seguito della poesia nella quale gli stessi grandi e perfetti versi di apertura nascono non tanto da un isolato e concluso movimento di estatica, soddisfatta contemplazione, ma dall’interno di una tensione piú complessa. E questa tensione tanto piú esalta l’immacolata purezza di quel paesaggio in quanto quel paesaggio è appunto un termine di ardente vagheggiamento, tanto piú profondo in quanto implica un contrasto dinamico, l’appassionato tendere a una bellezza da cui la sua situazione di infelice, di maledetto dalla sorte tiene il poeta sostanzialmente escluso («dispregiata amante» della natura, come si dirà poi nell’Ultimo canto di Saffo, v. 25).

Per quel che riguarda poi i famosi versi iniziali occorrerà ricordare come essi, nella loro perfetta realizzazione, siano frutto di una tarda revisione che risale addirittura al 1835, all’edizione napoletana dei Canti, quando il Leopardi, pur muovendosi in una direzione di poetica cosí diversa, possedeva un gusto cosí maturo e acuto, che rimettendosi nella situazione lontana, seppe migliorare la prima redazione e portarla alla sua assoluta perfezione.

La prima redazione (già tolto il troppo scoperto «Oimè») era:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

e queta in mezzo a gli orti e in cima a i tetti

la luna si riposa, e le montagne

si discopron da lungi. […]

Quando si rilegge la redazione definitiva:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna, e di lontan rivela

serena ogni montagna. [...] (vv. 1-4)

si può subito osservare come il poeta sia riuscito a creare una scena tanto piú profonda e compatta, con un espandersi uguale e perfetto della luce lunare che domina tutte le immagini, mentre la sostituzione di «Posa» a «si riposa» abolisce quel che di troppo antropomorfico e materiale aveva la prima espressione.

Alla scena iniziale del paesaggio lunare si aggiunge coerentemente l’immagine della donna amata, che anch’essa appartiene al mondo sereno della natura, rappresentata nella quiete della notte, delle sue stanze e del suo «agevol sonno», simbolo concreto anch’essa di una vita naturale, istintiva, cosí diversa da quella infelice e turbata del poeta.

Ma già entro la rappresentazione della donna si insinua il motivo elegiaco, anche se in forma inizialmente negativa («e non ti morde / cura nessuna; e già non sai né pensi / quanta piaga m’apristi in mezzo al petto», vv. 8-10), per poi erompere sempre crescente (e a contrasto col ribadito senso di pace della donna: «Tu dormi») nella rappresentazione drammatica del poeta che dallo stesso spettacolo di pace notturna trae chiare note di turbamento (quel cielo «che sí benigno / appare in vista», in realtà si rivela per lui minaccioso e ostile, come la bella natura onnipossente che lo fece «all’affanno» e che direttamente gli annuncia ogni privazione di speranza e una sorte unicamente dolorosa):

[...] O donna mia,

già tace ogni sentiero, e pei balconi

rara traluce la notturna lampa:

tu dormi, che t’accolse agevol sonno

nelle tue chete stanze; e non ti morde

cura nessuna; e già non sai né pensi

quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno

appare in vista, a salutar m’affaccio,

e l’antica natura onnipossente,

che mi fece all’affanno. A te la speme

nego, mi disse, anche la speme; e d’altro

non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. (vv. 4-16)

Dopo questa prima parte della poesia, in cui l’intreccio idillico-elegiaco è venuto lentamente svolgendosi fino alle forme piú aperte dell’elegia, la poesia ha una forte pausa che va ben calcolata in una lettura che meglio comprenda il procedimento di sviluppo profondo e suggestivo del tema e dell’intreccio, superando l’impressione sostanzialmente sbagliata di una costruzione composita, a suture ingiustificate, a sbalzi di tono, dovuti all’irruzione impoetica di movimenti autobiografici e drammatici entro un contesto idillico che costituirebbe il vero tono sincero e poetico del componimento.

La pausa permette una profonda ripresa dell’intreccio idillico-elegiaco, che parte da una nuova presentazione calma e distensiva della donna, tutta immersa nei suoi sogni, nelle immagini dolci ricavate dal giorno festivo, e sale, con maggior violenza, alla contrastante presentazione della situazione drammatica del poeta, senza felicità e senza compenso d’amore:

Questo dí fu solenne: or da’ trastulli

prendi riposo; e forse ti rimembra

in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,

al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

quanto a viver mi resti, e qui per terra

mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

in cosí verde etate! [...] (vv. 17-24)

Proprio da questo culmine di intensità elegiaco-drammatica, e all’interno dello stesso verso, si apre poi l’ultima grande parte della poesia in cui (attraverso la sigla elegiaca dell’«Ahi») l’intreccio idillico-elegiaco si riprospetta in forme piú sottilmente sensibili e pur non come un’aggiunta dura e ingiustificata. Ché al tema del contrasto tra spettacoli puri e distensivi (il paesaggio, la donna) e l’infelicità e solitudine del poeta, ben si collega il nuovo grande tema del sentimento della caducità di tutte le cose (ancora una scoperta fondamentale e un’“avventura storica” dell’animo leopardiano) suggerito (nel solito intreccio idillico-elegiaco) dal canto dell’artigiano, dolce e struggente: tema e intreccio che sarà ulteriormente ripreso e riprospettato alla fine con un approfondimento di suggestiva sensibilità, attraverso l’incentivo dolce-doloroso del ricordo e con il consolidamento di un sentimento provato sin dall’infanzia, segno di una vocazione a quel senso della caducità che si è aggiunto al tema dell’infelicità e della maledizione fatale della natura:

[...] Ahi, per la via

odo non lunge il solitario canto

dell’artigian, che riede a tarda notte,

dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

e fieramente mi si stringe il core,

a pensar come tutto al mondo passa,

e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

il dí festivo, ed al festivo il giorno

volgar succede, e se ne porta il tempo

ogni umano accidente. Or dov’è il suono

di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

de’ nostri avi famosi, e il grande impero

di quella roma, e l’armi, e il fragorio

che n’andò per la terra e l’oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

il mondo, e piú di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s’aspetta

bramosamente il dí festivo, or poscia

ch’egli era spento, io doloroso, in veglia

premea le piume; ed alla tarda notte

un canto che s’udia per li sentieri

lontanando morire a poco a poco,

già similmente mi stringeva il core. (vv. 24-46)

Prima la diretta evocazione del canto solitario, dolce e suggestivo nel silenzio notturno, e della sua sensazione profonda (ma, si noti, l’acutissima sensazione leopardiana non è mai fine a se stessa, è in qualche modo mezzo di conoscenza e di rivelazione, di qualcosa di piú profondo e intimo), accresciuta dal riferimento all’artigiano che ritorna dopo i suoi modesti divertimenti alla povera casa (e anche l’artigiano appartiene a quel mondo reale, familiare e poetico, di persone schiette, umili, autentiche, piú vicine alla natura, che ritorneranno con tanta poesia, e con tanta forte simpatia del poeta, anche nei grandi canti del periodo pisano-recanatese). Poi, dall’interno della stessa sensazione del canto, la sua allusione struggente al motivo profondo ed elegiaco della caducità di tutte le cose: motivo che si traduce nella stessa musica dei versi labili e digradanti di intensità («come tutto al mondo passa / e quasi orma non lascia»). Per poi espandersi in una grandiosa meditazione sulla scomparsa del passato piú grandioso e glorioso, in un crescendo di motivi e di suoni che ben si adatta alla grandezza del tema. Quel tema dell’ubi sunt?, a cui non manca la sollecitazione di quell’onda poetica e malinconica di tanta poesia preromantica e soprattutto di quei soliti Canti di Ossian che tante suggestioni portarono al Leopardi[16]. Mentre dagli stessi canti può essere stato agevolato in questa poesia lo stesso procedimento dell’effetto dolce e malinconico del digradare lento delle sensazioni e dei suoni[17].

Su quel crescendo intenso e non esteriormente rumoroso, un’ultima pausa di silenzio e di calma malinconica. Poi infine l’ultima grande battuta della poesia: il ritorno del tema del canto notturno, della sua dolcezza e della sua allusione alla caducità di tutte le cose. Ritorno che in parte riadopera con chiara volontà di sottolineatura della similarità della situazione, parole già usate nella prima presentazione del motivo («tarda notte», «stringeva il core»), e che approfondisce, con grande sensibilità, il primo motivo con l’incentivo dolce e struggente del ricordo, con l’indicazione di una consuetudine e di una persistenza che consolida la profondità e l’importanza del motivo, e con un di piú dolce-elegiaco nella espressione del lento allontanarsi e svanire (ma «morire» è piú intenso e malinconico) del canto.

Tanto piú deboli appaiono, in confronto con La sera del di di festa, gli altri due componimenti del ’20-21, anche se non mancano di materiale leopardiano che troverà vera traduzione poetica in piú tarde poesie.

Nel primo, Il sogno, probabilmente della fine del ’20, malgrado il titolo di «idillio» (del resto il Leopardi pubblicandolo una prima volta nella rivista bolognese «Il Caffè di Petronio» lo aveva intitolato Elegia), è soprattutto intonato a una impostazione elegiaca (e la componente idillica può esser semmai ritrovata, con qualche sforzo, nel tentativo leopardiano di evadere dalla sua situazione infelice attraverso un sogno amoroso, un compenso dolce e illusorio).

Ma anche nella direzione elegiaca il componimento si rivela scadente, troppo sentimentale e quasi melodrammatico, sulla via che condurrà il Leopardi tanto piú tardi al mediocre e piú febbrile Consalvo. Mentre, specie nell’ultima parte in cui la fanciulla amata e morta assicura il poeta di aver corrisposto al suo amore, la situazione ricalca troppo da vicino e con troppa letterarietà quella petrarchesca del secondo canto del Trionfo della morte. Come, in questa via meno originale e sua, il Leopardi utilizza, oltre a numerose forme petrarchesche, certo linguaggio patetico, tenero e melodrammatico dei Pensieri d’amore del Monti.

Sicché, pur avvertendo un certo fascino nel fatto che il poeta ha cercato di far giungere e filtrare la voce della donna con cui dialoga, come da una doppia lontananza (quella del sogno e quella della morte), tutto il componimento ha qualcosa di troppo blando e quasi dolciastro, ben lontano dalla forza, dalla sobrietà ed energia (energia anche nelle sensazioni piú dolci e suggestive) che sono della vera voce poetica leopardiana.

E si potrà solo, pensando ai grossi temi della impersuasione della morte altrui, della pietà per la morte dei giovani, delle accuse alla natura (in parte già impostati, ad esempio, nella canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, in parte preparati alle grandi espressioni poetiche dell’Ultimo canto di Saffo o di A Silvia e delle Ricordanze), riportare dal Sogno la parte centrale per questa presenza piú inerte, anche se sempre elegante e fine, di materiale leopardiano:

Dissei colei. Son morta, e mi vedesti

l’ultima volta, or son piú lune. Immensa

doglia m’oppresse a queste voci il petto.

Ella seguí: nel fior degli anni estinta,

quand’è il viver piú dolce, e pria che il core

certo si renda com’è tutta indarno

l’umana speme. A desiar colei

che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare

l’egro mortal; ma sconsolata arriva

la morte ai giovanetti, e duro è il fato

di quella speme che sotterra è spenta.

Vano è saper quel che natura asconde

agl’inesperti della vita, e molto

all’immatura sapienza il cieco

dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,

taci, taci, diss’io, che tu mi schianti

con questi detti il cor. Dunque sei morta,

o mia diletta, ed io son vivo, ed era

pur fisso in ciel che quei sudori estremi

cotesta cara e tenerella salma

provar dovesse, a me restasse intera

questa misera spoglia? Oh quante volte

in ripensar che piú non vivi, e mai

non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,

creder noi posso. Ahi ahi, che cosa è questa

che morte s’addimanda? Oggi per prova

intenderlo potessi, e il capo inerme

agli atroci del fato odii sottrarre.

Giovane son, ma si consuma e perde

la giovanezza mia come vecchiezza;

la qual pavento, e pur m’è lunge assai.

Ma poco da vecchiezza si discorda

il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto,

disse, ambedue; felicità non rise

al viver nostro; e dilettossi il cielo

de’ nostri affanni. [...] (vv. 23-58)[18]

Ma ben si avverte proprio di fronte a queste accuse tremende alla natura e al cielo, come esse siano involte in un linguaggio troppo blando e debole, che le priva della loro risonanza e forza piú profonda.

L’ultimo idillio, La vita solitaria[19], attribuibile probabilmente all’estate del 1821 ha diretti rapporti con alcuni pensieri dello Zibaldone nei quali, riflettendo sulla solitudine, Leopardi scrive che l’uomo disingannato e reso esperto della sua situazione infelice, delle rovine operate dalla ragione che disperde le illusioni e allontana dalla natura, ritrova un certo contatto con la natura stessa e riprende una qualche lena vitale. Cosí il 20 febbraio 1821, (commentando una frase di Madame de Lambert), il Leopardi afferma che, perduta la «prima energia della vita sociale» che alimentava le generose illusioni, «L’uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desiderii, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e piú o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d’ingegno, e sventuratissimo». E dunque ama la solitudine «Perché il vuoto non potendo essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni sono oggi piú facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all’opposto di quello ch’erano anticamente» [680-683][20].

E in un simile pensiero del 23 agosto 1821, aggiunge:

Quando gli uomini sono ben conosciuti, non è piú possibile sentir niente per loro; ogni moto del cuore è languido, e oltracciò s’estingue appena nato. L’affetto è incompatibile colla conoscenza della malvagità dell’uomo, e della nullità delle cose umane. [...] Ma la natura e le cose inanimate sono sempre le stesse. Non parlano all’uomo come prima: la scienza e l’esperienza coprono la loro voce: ma pur nella solitudine, in mezzo alle delizie della campagna, l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo, può tornare in relazione con loro, benché assai meno stretta e costante e sicura; può tornare in qualche modo fanciullo, e rientrare in amicizia con esseri che non l’hanno offeso, che non hanno altra colpa se non di essere stati esaminati, e sviscerati troppo minutamente, e che anche secondo la scienza, hanno pur delle intenzioni e de’ fini benefici verso lui. [1549-1550][21]

Si tratta tuttavia di un motivo di ripiego e di compromesso, e tanto piú tale si configura entro La vita solitaria (una forma di evasione dalla realtà e dai problemi piú centrali, un idillico tentativo di riprender qualche lena e un minimo di vitalità nelle «delizie della campagna»); come si può vedere soprattutto dai versi finali, in cui, invocando la luna ed elogiando il suo raggio con una lunga serie di contrasti, assai letterari, fra il bene che la sua luce porta a lui e il danno che arreca a esseri malvagi di cui scopre le azioni delittuose, conclude:

Or sempre loderollo, o ch’io ti miri

veleggiar tra le nubi, o che serena

dominatrice dell’etereo campo,

questa flebil riguardi umana sede.

Me spesso rivedrai solingo e muto

errar pe’ boschi e per le verdi rive,

o seder sovra l’erbe, assai contento

se core e lena a sospirar m’avanza. (vv. 100-107)

Versi eleganti, ma deboli, che attraverso un atteggiamento descrittivo piú chiaramente idillico e pittoresco conducono a una conclusione debole e di ripiegamento: non una reazione energica o un’ardente tensione alla vita piena, poetica, attiva, ma l’appagamento di una relativa, minima possibilità di lieve ripresa del cuore e della vitalità.

E come debole, idillico (nel senso piú evasivo e descrittivo e pittoresco della parola) è il motivo centrale, cosí sostanzialmente debole e intimamente frammentaria è la poesia nel suo insieme, legata com’è a uno schema assai esterno e convenzionale (le quattro parti del giorno entro cui si svolgono le scene della poesia), schema che par ripreso da un componimento delle Poesie campestri di Ippolito Pindemonte, intitolato appunto Le quattro parti del giorno, dalla cui poesia tenue ed elegante ritornano echi di un linguaggio piú chiaramente idillico e facilmente melodico.

Cosí pure chiaramente disposto in forme piú idillicamente tradizionali ed eccessivamente analitiche di singole espressioni e di singoli oggetti e atti pittoreschi (a parte poi la convenzionale e arcadica designazione del villino di campagna dei Leopardi come una «capanna» pastorale) è l’inizio del componimento:

La mattutina pioggia, allor che l’ale

battendo esulta nella chiusa stanza

la gallinella, ed al balcon s’affaccia

l’abitator de’ campi, e il Sol che nasce

i suoi tremuli rai fra le cadenti

stille saetta, alla capanna mia

dolcemente picchiando, mi risveglia;

e sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo

degli augelli susurro, e l’aura fresca,

e le ridenti piagge benedico [...]. (vv. 1-10)

Si tratta di una descrizione troppo minuta e compiaciuta, ben lontana dalle forme sobrie, suggestive, essenziali dei veri paesaggi poetici leopardiani. O comunque si tratta di un gusto di particolari che richiederanno altrove, dove la ispirazione è piú sicura e sorretta da temi piú centrali e organici, un riassorbimento piú fuso e funzionale, mentre qui rimangono su di un piano provvisorio, come materiali di sensazioni ancora da elaborare in maniera poetica piú salda e sintetica.

Né, in questa prima parte, si attua davvero quell’intreccio idillico-elegiaco cosí funzionale nella Sera del dí di festa, perché gli elementi piú elegiaci e drammatici, che si aggiungono a questa prima descrizione tutta facilmente idillica, sono pieni di incertezze, di stacchi e sfumature, e, alla conclusione, riportano a un tono energico, di chiaro stampo alfieriano, che risuona come una vera e propria stonatura:

Poiché voi, cittadine infauste mura,

vidi e conobbi assai, là dove segue

odio al dolor compagno; e doloroso

io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna

benché scarsa pietà pur mi dimostra

natura in questi lochi, un giorno oh quanto

verso me piú cortese! E tu pur volgi

dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando

le sciagure e gli affanni, alla reina

felicità servi, o natura. In cielo,

in terra amico agl’infelici alcuno

rifugio non resta altro che il ferro. (vv. 11-22)

Anche la seconda parte (certo la piú intensa e suggestiva di tutto il componimento) è, a mio avviso, assai lontana (oltre che poco organicamente legata al resto del componimento e quasi contraddittoria con il sentimento di lieve ripresa vitale che dovrebbe essere il tema centrale della poesia) dalla profondità di quell’Infinito cui qualche critico, ad esempio il Tilgher, ha voluto esageratamente ravvicinarla, ritrovandovi poi una specie di scoperta del numinoso, un tipo di esperienza a suo modo mistica. In realtà in questo brano, certo isolatamente assai interessante e intenso (ma comunque costruito con un metodo piú analitico, tipico di tutta la poesia), il Leopardi conduce avanti una forma di evasione dalla realtà, di annullamento, ben diverso dal procedimento di presa di coscienza del sentimento dell’infinito:

Talor m’assido in solitaria parte,

sovra un rialto, al margine d’un lago

di taciturne piante incoronato.

Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,

la sua tranquilla imago il Sol dipinge,

ed erba o foglia non si crolla al vento,

e non onda incresparsi, e non cicala

strider, né batter penna augello in ramo,

né farfalla ronzar, né voce o moto

da presso né da lunge odi né vedi.

Tien quelle rive altissima quiete;

ond’io quasi me stesso e il mondo obblio

sedendo immoto; e già mi par che sciolte

giaccian le membra mie, né spirto o senso

piú le commova, e lor quiete antica

co’ silenzi del loco si confonda. (vv. 23-38)

E se la terza parte presenta molti motivi e immagini leopardiane che diverranno materia poetica viva nei grandi canti del periodo pisano-recanatese (l’evocazione del dolce tempo giovanile di speranza, il canto suggestivo di una fanciulla al lavoro ecc.), tutto vi è però diluito, ampliato in forme piú pittoresche, scosso da moti drammatici improvvisi e non fusi.

Mentre l’ultima parte, conclusa coi versi già ricordati, dimostra tutta la sua intrinseca debolezza sia nell’insistito ed esterno schema a contrasto fra il proprio elogio della luna e l’aborrimento di questo da parte di persone malvage intese a opere delittuose che la luna scopre e mette in pericolo, sia nel descrittivismo insistente che riecheggia e, addirittura, ripete, in forma spesso assai meccanica, procedimenti e moduli del Parini dell’inizio della Notte:

O cara luna, al cui tranquillo raggio

danzan le lepri nelle selve; e duolsi

alla mattina il cacciator, che trova

l’orme intricate e false, e dai covili

error vario lo svia; salve, o benigna

delle notti reina. Infesto scende

il raggio tuo fra macchie e balze o dentro

a deserti edifici, in su l’acciaro

del pallido ladron ch’a teso orecchio

il fragor delle rote e de’ cavalli

da lungi osserva o il calpestio de’ piedi

su la tacita via; poscia improvviso

col suon dell’armi e con la rauca voce

e col funereo ceffo il core agghiaccia

al passegger, cui semivivo e nudo

lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre

per le contrade cittadine il bianco

tuo lume al drudo vil, che degli alberghi

va radendo le mura e la secreta

ombra seguendo, e resta, e si spaura

delle ardenti lucerne e degli aperti

balconi. Infesto alle malvage menti,

a me sempre benigno il tuo cospetto

sarà per queste piagge, ove non altro

che lieti colli e spaziosi campi

m’apri alla vista. [...] (vv. 70-95)

Con Il sogno e con questa poesia disorganica, intimamente debole, inficiata da troppi elementi letterari e da un descrittivismo troppo analitico, la nuova spinta di poesia idillico-elegiaca, che aveva ottenuto cosí alto risultato nella Sera del di di festa, è venuta diluendosi ed esaurendosi.

E lo sviluppo della poesia leopardiana riprenderà, con nuovo vigore e con nuova pregnanza di posizioni essenziali ed energiche (e con una piú forte collaborazione con il denso svolgersi del pensiero dello Zibaldone), con il ciclo delle canzoni composte tra la fine del ’21 e la prima metà del ’22.


1 Tutte le opere, I, pp. 7-9.

2 Tutte le opere, I, p. 1100.

3 Tutte le opere, I, pp. 55-56.

4 Tutte le opere, I, pp. 1089-1090.

5 Tutte le opere, II, p. 35.

6 Si noti, una volta per tutte, come il Leopardi, nel rievocare i poeti, usi un procedimento di richiamo di espressioni vicine a espressioni di quegli stessi poeti (qui il «Non domito nemico / della fortuna» richiama il dantesco «L’amico mio, e non de la ventura», Inf., II, v. 61), quasi a renderne piú diretta e intensa la rievocazione. Un simile procedimento aveva già piú assiduamente adoperato il Foscolo nei Sepolcri.

7 Cfr. Tutte le opere, II, p. 1015.

8 Tutte le opere, II, p. 786.

9 Si pensi in tal senso a certi versi della Gerusalemme, come quello in cui Solimano mira «L’aspra tragedia dello stato umano» (C. 20, ott. 73, v. 6) o al celebre coro del Torrismondo: «Ahi lacrime, Ahi dolore: / passa la vita e si dilegua e fugge / come giel che si strugge» ecc. (At. V, sc. 6, vv. 138-140).

10 Cfr. Tutte le opere, I, p. 17.

11 Tutte le opere, I, p. 1099.

12 Tutte le opere, I, p. 1099.

13 Tutte le opere, II, p. 35.

14 Tutte le opere, I, p. 1094.

15 Per le varianti della Sera del dí di festa cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 406-409.

16 Ad esempio:

Ove son’ora, o duci,

i padri nostri, ove gli antichi eroi? (Temora, I, vv. 387-388).

Ove son ora, o vati,

i duci antichi? ove i famosi regi?

Già della gloria lor passaro i lampi.

Sconosciuti, obliati

giaccion coi nomi lor, coi fatti egregi, [...]. (La Notte, vv. 234-238).

17 Ad esempio:

Luce che scema a poco a poco, e manca. (Dartula, v. 236).

Intesi il lento degradar soave

del canto dilungantesi, [...]. (Temora, III, vv. 486-487).

18 Tutte le opere, I, p. 18.

19 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 19-20.

20 Tutte le opere, II, pp. 211-212.

21 Tutte le opere, II, p. 438.